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Per il ministro Crosetto c’è il gruppo Wagner dietro al boom di sbarchi in Italia
Finora ci sono stati circa 20mila arrivi di migranti in Italia nel 2023. Nel 2022 erano stati 6mila. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto che il gruppo Wagner sta usando i migranti africani per fare pressione sull’Italia. Il leader del gruppo Wagner, Yevgeny Prigozhin, ha risposto che loro hanno altre cose a cui pensare.
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è convinto che l’aumento degli sbarchi in Italia sia pilotato dal gruppo Wagner. Quest’ultimo, una formazione di mercenari russi legata in modo poco trasparente al Cremlino, svolge attività paramilitari nel continente africano, compresa la Libia. E secondo Crosetto starebbe spingendo quanti più migranti possibile verso l’Europa come arma di pressione in risposta al suo sostegno all’Ucraina.
Bandiere russe in sostegno al gruppo Wagner durante in manifestazione in Mali © MICHELE CATTANI/AFP via Getty Images Crosetto contro il gruppo WagnerDall’inizio del 2023 gli arrivi sulle coste italiane sono stati oltre il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Circa 20mila sbarchi fino a ora, contro i 6mila dello scorso anno. E per il governo che è salito al potere a suon di “porti chiusi”, “blocco navale” e sovranismo vario, questo è un problema.
Leggi anche Gruppo Wagner, chi sono i mercenari russi che combattono in UcrainaA mettere una toppa ci ha pensato il ministro della Difesa, Guido Crosetto. “Mi sembra che ormai si possa affermare che l’aumento esponenziale del fenomeno migratorio che parte dalle coste africane sia anche, in misura non indifferente, parte di una strategia chiara di guerra ibrida che la divisione Wagner, mercenari al soldo della Russia, sta attuando, utilizzando il suo peso rilevante in alcuni paesi africani”, ha dichiarato nelle scorse ore.
Boom migranti, il ministro della Difesa Guido #Crosetto ipotizza infiltrazioni russe: "L'aumento esponenziale del fenomeno migratorio è parte di una chiara strategia di guerra ibrida che la divisione Wagner sta attuando, utilizzando il suo peso rilevante in Africa" pic.twitter.com/f6UI4TWEDy
— Ultimora.net – POLITICS (@ultimora_pol) March 13, 2023Il gruppo Wagner è una compagnia militare che di fatto non esiste, siccome per la legge russa i mercenari non possono esistere. Un corpo fantasma, ma che in realtà è ben radicato nel tessuto politico-istituzionale-militare di Mosca: i suoi dirigenti hanno infatti stretti rapporti con Vladimir Putin e oggi combattono con decine di migliaia di uomini in Ucraina. Questi mercenari operano anche in alcuni paesi africani, dove supportano i governi locali nella lotta contro le milizie jihadiste, ottenendo in cambio l’accesso alle risorse naturali e alle occasioni di business sul territorio. Ma secondo Crosetto l’attività non si limiterebbe più a questo: il gruppo Wagner avrebbe creato un canale migratorio massiccio verso l’Europa come arma di pressione e ricatto per il sostegno europeo a Kiev.
La risposta dei mercenari russiL’estate scorsa il quotidiano la Repubblica aveva rilanciato una notizia simile, individuando un ruolo del gruppo Wagner nel flusso migratorio africano. E subito era arrivata la replica di Matteo Salvini, leader della Lega. “Per la sinistra sarebbe Putin a spingere i barconi pieni di clandestini in Italia. Siamo alle comiche”, scriveva. Oggi queste comiche sono diventate la posizione ufficiale del governo di destra di cui Salvini è vicepremier e ministro dei Trasporti.
Salvini a fine luglio rideva della sinistra che accusava la Russia di favorire l'immigrazione clandestina verso l'Italia (pur di difendere Putin e accusare Lamorgese e @pdnetwork)
Chissà cosa pensa delle dichiarazioni di Crosetto sul ruolo della Wagner. Sono altrettanto comiche? pic.twitter.com/4Rqx5bew2s
Claudio Borghi, senatore della Lega, ha annunciato che nei prossimi giorni si terrà sicuramente una riunione del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica, dove verrà discusso l’argomento. “Se il ministro della Difesa dice una cosa è perché ha degli elementi per poterlo dire”, ha sottolineato Borghi, ammettendo implicitamente che per ora non vi è alcuna prova di dominio pubblico del rapporto gruppo Wagner-flusso migratorio. E a smentire quest’ultimo ci ha pensato lo stesso capo del gruppo di mercenari russi, Yevgeny Prigozhin: “Non abbiamo idea di cosa stia accadendo in merito alla crisi dei migranti, ma noi non ce ne occupiamo”, ha scritto su Telegram, per poi insultare Crosetto.
Biden approva un enorme progetto di trivellazione petrolifera in Alaska
L’amministrazione Biden ha appena approvato il progetto di trivellazione in Alaska proposto dalla società di idrocarburi ConocoPhillips. Il progetto, conosciuto come Willow project, avrà un enorme impatto climatico, pari alla riattivazione di un terzo delle centrali a carbone di tutti gli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti di Joe Biden approvano un enorme progetto di trivellazione petrolifera in Alaska, nonostante il suo impatto climatico e le promesse fatte dal presidente in termini di riduzione delle emissioni.
Noto come Willow project, il progetto di perforazione in Alaska ha destato tantissime critiche da parte delle associazioni ambientaliste, delle comunità indigene e da diversi parlamentari democratici.
Una mappa del National Petroleum Reserve Alaska © Wikimedia Commons Che cos’è il Willow project approvato in AlaskaIl progetto di perforazione ed estrazione di petrolio e gas approvato da Joe Biden lunedì 13 marzo 2023, conosciuto come Willow project vale circa 7 miliardi di dollari e sorgerà all’interno della National petroleum reserve-Alaska (Npra), un’area di oltre 90 milioni di ettari del North Slope, regione settentrionale dell’Alaska, nel più grande tratto di suolo pubblico incontaminato negli Stati Uniti.
Il Willow project approvato è in realtà una versione ridotta del progetto originariamente proposto dalla società ConocoPhillips (Cop.N). Infatti, la Cop.N. aveva proposto la costruzione di cinque siti di trivellazione, chilometri di strade e oleodotti e sette ponti. Sono stati invece approvati “solo” tre pozzi.
L’intero progetto era stato inizialmente approvato dall’amministrazione Trump nel 2020, ma un giudice federale dell’Alaska ha bloccato il progetto nel 2021, affermando che l’analisi ambientale era errata e doveva essere rifatta.
Today on #PresidentsDay, we call on @potus to fulfill his climate promises and stop the Willow Project, aka the largest proposed oil&gas "Carbon Bomb" threatening Alaska's North Slope and the Western Arctic. #StopWillow
See our thread and send him a message! pic.twitter.com/P6RgYcUsd6
L’area del progetto Willow contiene circa 600 milioni di barili di petrolio, più della quantità attualmente detenuta nella Us strategic petroleum reserve, la scorta di petrolio disposta per casi di emergenza e gestita dal dipartimento dell’energia degli Stati Uniti (tra l’altro è la più grande fornitura di emergenza pubblicamente nota al mondo: i suoi serbatoi sotterranei in Louisiana e Texas hanno una capacità di 714 milioni di barili).
L’economia dell’Alaska dipende ancora in gran parte dall’industria delle trivellazioni. Per questo, i politici federali sperano che il progetto garantisca loro anni di prosperità. Anche Biden ha esortato le compagnie petrolifere ad aumentare la propria produzione di petrolio per tenere sotto controllo i prezzi dell’energia al consumo.
ConocoPhillips ha garantito che il progetto porterà nelle casse del governo federale e di quello statale (e in quelle della comunità locale, a detta della società) ben 17 miliardi di dollari di utili.
Leggi anche In Texas, a El Paso, i giovani possono fermare le trivellazioni petrolifere Qual è il suo impatto ambientaleIl ministero dell’interno statunitense ha spiegato di non aver sostenuto l’intera proposta e di aver approvato solo una versione ridotta del progetto proprio per ridurre il rischio ambientale e l’impatto sugli habitat di alcune specie animali, tra cui orsi polari e svassi dal becco giallo.
Ma i gruppi ambientalisti (tra cui spicca PeopleVSFossilFuels, una coalizione di oltre 1.200 organizzazioni in prima linea per la giustizia climatica, di cui fanno parte le associazioni che si battono per i diritti indigeni di Sovereign Iñupiat for a living arctic e l’Alaska wilderness league) rimangono sconcertati da tale decisione, sostenendo che il progetto, anche se nella sua forma ridotta, è in conflitto con le promesse dell’amministrazione Biden di combattere i cambiamenti climatici.
Si tratta di un attacco alla natura incontaminata e il progetto di trivellazione potrebbe emettere circa 287 milioni di tonnellate di CO2 nei prossimi 30 anni, equivalenti alla riattivazione di un terzo di tutte le centrali a carbone degli Stati Uniti oppure pari alle emissioni prodotte da 1,1 milioni di abitazioni in un anno, più di quelle di Chicago insomma. Di sicuro una “carbon bomb” che bloccherebbe per decenni gli sforzi degli Usa per uscire dai combustibili fossili.
Auto ed economia circolare sono sempre più legate, vediamo perché
L’auto elettrica? Da sola non basta. Anzi. Ormai sono in molti a pensare che l’auto elettrica non sia la rivoluzione che molti immaginano. L’auto elettrica, per come è pensata oggi, spreca ancora troppe risorse, almeno se immaginata come auto per un uso privato. Per capirci, a cosa serve rincorrere autonomie elettriche elevate (e batterie sempre più pesanti e costose) se poi mediamente le persone percorrono solo 10mila chilometri l’anno? Pesante, costosa, complessa: davvero il futuro dell’auto è questo? Vedremo. Intanto ci sono costruttori che guardano altrove. Guardano a un’auto sempre più guidata dall’economia circolare, ispirata ai concetti di reduce, reuse e recycle. Un’auto più leggera, semplice, versatile. Un’auto, elettrica sì, ma senza troppe complessità, accessibile. Come la Citroën oli, un’auto pensata (quasi) come un elettrodomestico.
La concept elettrica Citroën oli © Arnaud Taquet Citroën oli, pensata per le città che rallentanoNon pensate ai classici canoni di bellezza dell’auto. Anzi. Quel parabrezza verticale come un muro in realtà non è né bello, né aerodinamico: “Si potrebbe obiettare che un parabrezza verticale è meno aerodinamico, ma a priori il proprietario di questo tipo di veicolo non guiderà a velocità eccessive. Abbiamo progettato Citroën oli per le aree urbane e suburbane, dove le persone riducono la velocità e sono consapevoli degli aspetti ambientali e di sicurezza della mobilità quotidiana. Per questo motivo la velocità massima è limitata a 110 km/h”, ci hanno spiegato. Una filosofia in linea con la progressiva revisione urbanistica delle nostre città, sempre più pensate per ridurre numero e velocità delle auto.
Leggi anche Milano rallenta, dal 2024 sarà una città a “zona 30” per salvare persone e aria Cosa c’entra l’auto con l’economia circolareL’economia circolare svolge un ruolo fondamentale nella strategia del gruppo Stellantis, di cui Citroën è parte, con l’obiettivo di azzerare le emissioni di carbonio entro il 2038. Qualche esempio pratico? Il cofano di Citroën oli è piatto, come il tetto, o i pannelli delle porte. Una semplicità quasi disarmante, che però ha l’obiettivo di garantire un peso ridotto, un’elevata resistenza e una massima durata e riparabilità. Una carrozzeria realizzata facendo ampio ricorso al cartone ondulato riciclato sagomato in una struttura a nido d’ape, il tutto realizzato come un “sandwich” sovrapponendo pannelli rinforzati con fibra di vetro.
Le porte anteriori sono identiche su ogni lato, facili da realizzare e assemblare, il 20 per cento più leggere di una normale portiera, con un numero di componenti dimezzato. Le vernici sono a base di acqua. Il risultato? Il peso è ridotto del 50 per cento rispetto a una struttura equivalente in acciaio. Citroën oli è nata per massimizzare la longevità, pensata per avere più proprietari e prolungare il suo ciclo di vita attivo, grazie al riuso e alla riparabilità dei materiali. “Un’auto da tramandare”, hanno spiegato i progettisti francesi.
Gli interni della Citroën oli si ispirano ai mobili da ufficio, con gli schienali dei sedili realizzati in rete di poliuretano termoplastico riciclabile e stampati in 3D © Arnaud Taquet Leggi anche L’auto del futuro sarà in grado di rigenerarsi Less is more, una regola che vale anche per l’autoAnche dentro Citroën oli è una rivoluzione, un “togliere” al posto del “mettere”. Dei complessi sistemi di infotainment a cui ci hanno abituato gli ultimi modelli elettrici qui non c’è traccia, tutto è disponibile tramite lo smartphone del conducente, da inserire in un apposito alloggiamento al centro della plancia. D’altro canto, non è quello che facciamo ogni volta che saliamo sulle nostre auto? “Lo smartphone ha un potenziale tecnologico e una capacità di aggiornamento superiore a quella di molti veicoli, abbiamo deciso di adottare un approccio diverso all’infotainment”, spiegano in Citroën. Qui, una volta collegato il telefono, le informazioni e le App vengono proiettate direttamente sul parabrezza, che mostra anche altri dati, come la velocità, o il livello di carica della batteria. Un modo intelligente per risparmiare costi e ridurre il peso. E al posto dei tappetini, un rivestimento realizzato in poliuretano termoplastico espanso, più leggero, resistente e lavabile con un getto d’acqua grazie ai tappi di scarico.
Perché investire in costosi sistemi di infotainment quando lo smartphone può sostituirne quasi ogni funzione? © Arnaud Taquet Citroën oli è un laboratorio di idee su ruoteGli interni si ispirano ai mobili da ufficio, con gli schienali dei sedili realizzati in rete di poliuretano termoplastico riciclabile e stampati in 3D, sottili per aumentare l’abitabilità ma “confortevoli e rigidi per soddisfare appieno le aspettative”, assicurano i progettisti. L’obiettivo primario di questa concept è la leggerezza. Il peso dell’auto è di circa 1.000 chili, di molto inferiore alla media; un risultato ottenuto grazie alla dimensione contenuta della batteria da 40 kWh (pensata per un’autonomia fino a 400 chilometri con una velocità massima limitata a 110 km/h). Anche la ricarica elettrica è veloce, dal 20 all’80 per cento in 23 minuti. Citroën oli è un laboratorio di idee su ruote, un’auto manifesto ricca di idee e spunti applicabili nei prossimi modelli di serie del marchio francese, ma che per la semplicità guardano anche al passato, a modelli iconici come la Mehari.
La copertina del volantino originale della Citroen Mehari. Il nome per esteso richiamava ancora quello della Dyane, il modello da cui prendeva pezzi di telaio, motore, ruote e accessori © Citroën Il passato a volte può insegnarci moltoD’altro canto, negli anni Settanta un’auto mediamente pesava 800 chili, era lunga meno di 4 metri. Poi, le cose sono cambiate, un trend di incremento dimensionale dettato anche dalle accresciute caratteristiche di sicurezza, ma che in Citroën pensano già di “invertire, proponendo veicoli più leggeri e meno costosi”. Insomma, l’auto elettrica del prossimo decennio potrebbe essere minimalista, leggera, semplice, circolare. Diverso il discorso per il design: “Oli è una piattaforma di lavoro che permette di esplorare idee ingegnose e pragmatiche per una produzione futura, non necessariamente nella forma fisica che vedete qui”, hanno precisato.
La concept elettrica Citroën oli è un’auto “manifesto”, una concept car, al quale potrebbero ispirarsi i modelli del marchio francese nel prossimo decennio © Arnaud Taquet Nata per integrarsi nell’ecosistema energeticoSemplice non vuol dire non innovativa. Pensata per integrarsi nell’ecosistema energetico residenziale, oli è dotata di un dispositivo Vehicle to grid che può immagazzinare l’energia in eccesso generata dai pannelli solari di casa per rimetterla in rete o, grazie alla presa di corrente da 3,6 kW, alimentare un apparecchio elettrico esterno. Ultimi dettagli: anche le ruote sono più leggere, i pneumatici (realizzati in collaborazione con Goodyear) usano una mescola fatta con olio di girasole e silice ricavata dalla lolla di riso, resine di pino e gomma naturale in sostituzione degli oli sintetici derivati dal petrolio, con una durata di 500mila chilometri. Già, perché l’obiettivo di Citroën con questo concept mostrare “la tabella di marcia per sviluppare il veicolo di cui le famiglie avranno bisogno nei prossimi dieci anni”. Non ci resta che attendere.
La malnutrizione sta crescendo in Asia e in Africa e colpisce soprattutto le donne
Il numero di ragazze e donne incinte che allattano e che soffrono di malnutrizione acuta è salito da 5,5 milioni a 6,9 milioni. 51 milioni di bambini sotto i 2 anni soffrono di arresto della crescita. L’Asia meridionale e l’Africa subsahariana rimangono l’epicentro della crisi nutrizionale nel mondo.
La malnutrizione nelle donne in gravidanza sta diventando una grave emergenza sanitaria globale. Il numero di ragazze e donne incinte in fase di allattamento che soffrono di malnutrizione acuta è salito da 5,5 milioni a 6,9 milioni, ovvero il 25 per cento in più dal 2020 nei 12 paesi più colpiti dalla crisi alimentare e nutrizionale globale.
Nemmeno le economie più industrializzate sono al riparo dai rischi legati alla nutrizione: casi di anemia tra le ragazze, per esempio, sono in crescita nell’Europa occidentale e in Nordamerica. Dunque, nonostante i progressi fatti negli ultimi decenni, la malnutrizione rimane una delle più grandi minacce sia per la salute dei bambini sia per le loro madri.
Crescono il numero di donne malnutrite nel mondo © Stefen Heunis/AFP via Getty Images Porre fine alla fame entro il 2030A spiegarlo è l’ultimo rapporto dell’Unicef “Undernourished and overlooked”, secondo il quale in paesi come Afghanistan, Burkina Faso, Ciad, Etiopia, Kenya, Mali, Niger, Nigeria, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Yemen, la mancanza di cibo adeguato e di nutrienti essenziali sta avendo un impatto disastroso sulla salute di intere comunità, compromettendo lo sviluppo fisico e cognitivo dei bambini e aumentando il rischio di mortalità.
La malnutrizione è, secondo l’Unicef, una crisi ignorata e spesso trascurata dalle agenzie umanitarie e dai governi. Eppure, come sottolinea il rapporto, l’eliminazione della malnutrizione è un obiettivo chiave per il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (Sdgs), che mirano a porre fine alla povertà e alla fame entro il 2030.
Acute malnutrition amongst pregnant and breastfeeding women has surged by 25% in 12 countries impacted by crises.
Here's how we turn the tide. pic.twitter.com/A8lHnyBcAa
La guerra in Ucraina sta aggravando la situazione, soprattutto nei paesi già citati, ma l’attuale disuguaglianza di genere, che vede al centro della crisi nutrizionale le ragazze e le donne adolescenti, non è una novità e, in generale, ha mostrato scarsi miglioramenti negli ultimi due decenni.
Le donne sono spesso sottorappresentate pure nei programmi di sostegno alla nutrizione. Nel 2021, c’erano 126 milioni di donne in condizioni di insicurezza alimentare in più rispetto agli uomini, rispetto ai 49 milioni del 2019: il divario di genere nell’insicurezza alimentare è più che raddoppiato.
Una nutrizione insufficiente durante la vita delle ragazze e delle donne può portare a un sistema immunitario indebolito, uno sviluppo cognitivo insufficiente e un aumento del rischio di complicazioni potenzialmente letali, anche durante la gravidanza e il parto, con conseguenze pericolose e irreversibili per la sopravvivenza, la crescita, l’apprendimento e il futuro dei loro figli.
Per ora, i progressi nell’alimentazione delle ragazze e delle donne adolescenti sono troppo lenti: nessuna regione è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi globali del 2030.
Leggi anche Spreco alimentare: chi mangia sano butta meno cibo Asia e Africa rimangono l’epicentro della crisiA livello globale, 51 milioni di bambini sotto i 2 anni soffrono di arresto della crescita, il che significa che sono troppo bassi per la loro età a causa della malnutrizione. Di questi, circa la metà diventa rachitica durante la gravidanza e i primi sei mesi di vita, il periodo di 500 giorni in cui un bambino dipende completamente dalla nutrizione materna.
L’Asia meridionale e l’Africa subsahariana rimangono l’epicentro della crisi nutrizionale tra le ragazze e le donne adolescenti, ospitando 2 ragazze e donne adolescenti su 3 che soffrono di sottopeso a livello globale e 3 ragazze e donne adolescenti su 5 con anemia. Nel frattempo, le ragazze e le donne adolescenti delle famiglie più povere hanno il doppio delle probabilità di soffrire di sottopeso rispetto a quelle delle famiglie più ricche. Inoltre, la cattiva alimentazione viene tramandata di generazione in generazione.
193 milioni di persone vivono in insicurezza alimentareNon c’è tempo da perdere, insomma. Le persone che vivono in un contesto di insicurezza alimentare sono 193 milioni nel mondo e il rischio di morire nei bambini è aumentato di 12 volte negli ultimi anni. Per evitare tutto ciò, dallo scorso anno l’Unicef ha intensificato i suoi sforzi nei paesi più colpiti dalla crisi nutrizionale globale, con un piano di accelerazione per prevenire, rilevare e trattare il deperimento nelle donne e nei bambini.
Ma i numeri sono imponenti: l’organizzazione mira a raggiungere 12,2 milioni di bambini e 9,3 milioni di donne con servizi essenziali per prevenire la malnutrizione, 4,5 milioni di bambini con azioni per rilevare e curare il deperimento e 1,8 milioni di bambini e donne con attività di protezione sociale e sostegno economico per migliorare l’accesso a diete e servizi nutrienti. La strada per raggiungere questi obiettivi è ancora lunga.
Dire “color carne” è discriminatorio
Probabilmente non ci avete mai pensato, ma dire che qualcosa è “color carne”, riferendosi alla carnagione delle persone bianche, è discriminatorio perché implica che quella sia la norma, lo standard. La campagna italiana “Color carne” sta contribuendo a cambiare le cose e si è anche aggiudicata un premio agli European diversity awards a Londra. L’obiettivo è quello di spingere sempre più persone a spostare il proprio sguardo da quello che è considerato come normale e standard per creare una realtà più inclusiva.
Se lo scorso febbraio avessimo aperto il dizionario Devoto Oli, alla voce “Color carne” avremmo letto: “Color rosa pallido simile a quello della pelle umana”. Oggi, oltre al Nuovo Devoto Oli, hanno cambiato la loro definizione di color carne anche il Dizionario Garzanti di Italiano, il Nuovo De Mauro per Internazionale, la Treccani e lo Zingarelli-Zanichelli.
Tutto questo è merito di una campagna di comunicazione lanciata da due donne, Cristina Maurelli e Giuditta Rossi, che sono riuscite a spostare un piccolo grande tassello rispetto a quello che consideriamo lo status quo. Cristina Maurelli è un’autrice e regista che si occupa di cinema per il sociale, insegna discipline dello spettacolo all’università e lavora come consulente per le aziende così come Giuditta Rossi, che è una brand strategist e che si occupa di campagne multicanale e branding. Si sono conosciute lavorando a un progetto comune di consulenza e poi sono diventate partner d’affari prima, e partner di attivismo poi.
Giuditta Ross e Cristina Maurelli, le fondatrici di Color carne “Color Carne” è una campagna nata lo scorso febbraio“Un giorno ho detto a Giuditta che sotto a un abito che indossava un giorno avrebbe dovuto mettere un reggiseno color carne: non appena ho finito di pronunciare quella frase mi sono sentita morire. L’avevo detto proprio io, che mi sono sempre battuta per i diritti e che su questi argomenti ho centrato mille spettacoli teatrali e documentari. Lei si è messa a ridere, perché le succede sempre di andare in un negozio per chiedere qualcosa del suo color carne e ricevere in cambio una cosa rosa, ma per me è stata come un’epifania. Semplicemente non ci avevo mai pensato” racconta Cristina Maurelli a proposito della nascita della campagna. La questione è tanto semplice quanto importante: dando per scontato che la normalità sia avere la pelle bianca, si escludono automaticamente tutti quelli che non ce l’hanno.
Color carne nell’accezione comune si riferisce a un solo colore, ma non è così © Clay Banks Leggi anche Paola Egonu e le offese razziste, cosa è successo alla pallavolista italiana“Questa uscita ci ha dato però lo spunto per lavorarci, così abbiamo messo in pratica il nostro mestiere e abbiamo strutturato una campagna di advocacy integrata e pensata in modo tale che le persone potessero loro stesse dare la propria opinione sulla tematica”, integra Giuditta Rossi. “L’obiettivo era quello di creare un tipo di comunicazione assolutamente non colpevolizzante. Volevamo fare una cosa leggera, che però rivela un tema enorme, ovvero quante cose non vediamo, non sentiamo e diamo per scontate.”
Il linguaggio e la rappresentazione in qualche modo contribuiscono a creare la realtà: il nome che diamo alle cose è indicativo di quello che pensiamo e proviamo in proposito. Allo stesso modo delle questioni legate all’identità di genere, il colore della pelle della maggior parte dei parlanti di una lingua ha portato nel tempo a definire uno standard che è arrivato il tempo di decostruire come tale.
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La campagna di sensibilizzazione è stata lanciata con una chiamata all’azione sia da parte delle persone che dei brand. Questi ultimi oggi hanno il dovere di far sentire le persone rappresentate attraverso le proprie narrazioni, i propri prodotti, ma anche attraverso la cultura aziendale. “Color carne” diventa un po’ l’emblema, il simbolo di tutte quelle cose che si danno per scontate ma che, cambiandole, possono portare nel mondo una visione più inclusiva e accogliente. “Siamo stati contattati ad esempio da diversi traduttori e traduttrici per la cosmesi e da network attivi nella moda sostenibile. Nelle aree dove il discorso del colore della pelle ha un riscontro pratico la questione ha avuto un successo maggiore. Così come presso i brand emergenti, che hanno più margine di manovra” spiega Giuditta Rossi.
Leggi anche Sostenibilità significa anche abbracciare tutti i tipi di corpi Decostruire lo standard“La grande fatica infatti è stata in un primo momento capire come impostare la campagna e come riuscire a trovare un risultato tangibile, quindi ci siamo date come obiettivo quello di cambiare i dizionari. Per farlo abbiamo lavorato sia con le parole che con le immagini: abbiamo creato delle card per i social con cui abbiamo “hackerato” l’algoritmo di Google perché la gente ha cominciato a condividere card non solo rosa quindi adesso se scrivi color carne il wall non è più solo rosa chiaro o beige, ma ma è di tutti i colori. Dopo la campagna social qualcosa si è mosso e alcuni dizionari, ai quali avevamo scritto anche prima, hanno cambiato la dicitura”, continua Cristina Maurelli. “Poi è arrivato il risultato più tangibile, è arrivata prima la candidatura e poi il premio agli European diversity awards, in una serata con più di 600 persone che si occupano proprio di queste tematiche, per l’Italia c’eravamo solo noi. È stata una soddisfazione ed un riconoscimento del lavoro dell’intera community che si è adoperata per portare avanti il messaggio”.
Color Carne è una campagna di advocacy che si propone di allargare il concetto di quello che comunemente intendiamo con questa espressione © Ayo OgunseindeTra i partecipanti alla community anche tanti ragazzi e bambini, da chi ha portato la questione come tesina di terza media al bambino che non vede differenze tra le carnagioni. L’Italia oggi è molto più multiculturale rispetto anche solo a cinquant’anni fa, quindi è un terreno più ricettivo per un messaggio come quello di “Color carne”, che punta ad allargare lo spettro del significato che attribuiamo a questa espressione.
Leggi anche Moda e identità di genere: la Gen Z guida la rivoluzione“È per questo che pensiamo che sia importante occuparsi di questi aspetti del linguaggio. L’Italia sarà sempre più meticcia, una terra di incontro tra le persone: bisogna occuparsi di questo cambiamento. Trovare le parole, le immagini e le modalità perché ogni persona si senta rappresentata e la sua identità venga mostrata. L’incarnato pallido è il colore anche della pittura del Cinquecento, è evidente come sia radicata lì l’idea che l’Europa e gli europei bianchi siano il centro del mondo, la norma. L’italiano come tutte le lingue neolatine ha dei problemi di rappresentazione, oltre al color carne pensiamo al plurale maschile sovraesteso, ad esempio. Ci sono tante cose sulle quali bisogna fare un lavoro di sistemazione”.
Dare per scontato che il color carne si riferisca ad un incarnato chiaro nasconde un pregiudizio e una discriminazione nei confronti di chi ha la pelle di un altro colore © An Nguyen“Color Carne” vuole essere la dimostrazione di come concetti che sembrano inoffensivi, in particolare nel linguaggio e nelle rappresentazioni visive, possano invece nascondere bias, pregiudizi e discriminazioni. Intende sensibilizzare le persone e invitare gli editori e i brand a cambiare il loro vocabolario e a pensare a nuovi prodotti inclusivi, per una società in cui chiunque possa sentirsi rappresentato.
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